Homebrewing – Parte 3

Processo di produzione

il racconto della birra_cop.inddPassiamo ora al processo di produzione vero e proprio. Questo si può suddividere nei seguenti passaggi:

  • Macinazione
  • Ammostamento
  • Filtrazione e risciacquo
  • Bollitura
  • Raffreddamento

La macinazione

Lo scopo della macinazione è quello di permettere la solubilizzazione dell’amido e degli enzimi contenuti nel malto. Questa operazione, che può apparire banale, ricopre una certa importanza: una macinazione errata può causare problemi di vario genere. Se i grani vengono frantumati troppo finemente si rischia di creare troppa farina determinando alterazioni nella torbidità della birra finita. Al contrario, una macinazione troppo grossa impedirebbe la totale solubilizzazione degli amidi con effetti negativi sul rendimento finale.

È importante capire che i grani vanno schiacciati preservando, in questo modo, lo stato delle glumelle (scorze) che non devono frantumarsi. La loro integrità migliora la fase di filtrazione: tutte le scorze formano un pannello filtrante che aiuta a estrarre un mosto limpido. Dal punto di vista organolettico, lo “sfarinamento” delle glumelle non permette una efficace filtrazione con conseguente rilascio delle stesse all’interno del mosto. Questo, in fase di bollitura, causerebbe un rilascio di tannini e altre sostanze amare nella birra finita, determinando indesiderati gusti astringenti.

Ammostamento

Dopo aver macinato il malto d’orzo, questo viene miscelato con acqua calda per permettere l’attivazione di particolari enzimi contenuti nel malto. Grazie a questi enzimi molti composti vengono estratti dalle parti solide e si dissolvono nella componente liquida (mosto). È il caso dell’amido che viene convertito in zuccheri fermentabili, futuro alimento per i lieviti. Questa fase di produzione prende anche il nome di mash.

Gli enzimi sono proteine presenti nel malto. Ne esistono diversi, ognuno con un ruolo specifico che si attiva sostando a temperature e livelli di acidità (pH) diversi.

Nel dettaglio, le maggiori famiglie di enzimi sono:

Fitasi (sosta 30-52° C) ha la funzione di abbassare il livello di pH agendo sulla fitina, un fosfato contenuto soprattutto nei malti. Oggi questa sosta non viene più eseguita dal momento che risulta più pratico e rapido utilizzare altre sostanze per abbassare il pH del mosto (esempio solfato di calcio).

β-glucanasi (37-46° C) ha il compito di degradare i β–glucani, polisaccaridi presenti nella crusca dei cereali. La loro degradazione rende più semplice il processo di estrazione degli amidi dal cereale. Anche questa sosta viene comunemente saltata, dal momento che tali enzimi vengono attivati nella fase di maltazione.

Peptidasi e Proteasi (46-58° C) hanno la funzione di spezzare i legami peptidici che uniscono i vari amminoacidi presenti nel malto e dalla cui concatenazione hanno origine le proteine. In sostanza questa sosta ha la funzione di ridurre le proteine all’interno del mosto. Un eccesso di proteine può causare problemi alla birra in fatto di torbidità e di eccesso di schiuma. Per contro, un prolungamento eccessivo di questa fase può generare birre dal corpo evanescente (acquose) e senza il giusto grado di schiuma. La fase in cui entra in azione questo enzima viene comunemente detta Protein Rest.

Diastasi, sono gli enzimi più importanti per la produzione della birra e sono quelli che hanno la funzione di rompere gli amidi formando zuccheri. I due principali enzimi diastasi sono:

β-amilasi (54-68° C) ha la funzione di degradare gli amidi formando zuccheri semplici (in particolare maltosio) altamente fermentabili dal lievito. Più si lascia lavorare l’enzima della β-amilasi e più si otterranno birre maggiormente fermentabili (ovvero con più nutrimento per il lievito) e quindi con un tenore alcolico più alto e meno corpose.

α-amilasi (63-76° C) hanno la funzione di degradare gli amidi per ottenere però zuccheri complessi, detti destrine, che non sono fermentabili dal lievito e che concorrono a dare sapore e corpo alla birra.

Gli enzimi della β-amilasi e dell’α-amilasi, attivandosi a temperature simili, agiscono spesso contemporaneamente. Questa attività reciproca dei due enzimi causa una ulteriore conversione delle destrine prodotte dalla α-amilasi in maltosio. Per questo motivo, prolungare l’ammostamento oltre il tempo necessario può portare a un eccessivo contenuto di zuccheri fermentabili dai lieviti, quindi birre con minor corpo e maggior grado alcolico. È quindi consigliato inibire l’attività enzimatica a fine ammostamento scaldando il mosto a una temperatura di 78°C per un tempo di 10 minuti.

La fase di ammostamento è quindi la fase più importante dell’intero processo. Da essa dipendono le future caratteristiche che la birra avrà: corpo, alcool, schiuma, etc.

Esisto tre differenti metodi di ammostamento:

  • L’ammostamento a infusione è quello più comunemente usato sia dai birrifici artigianali sia dagli homebrewer. Consiste nell’aumentare progressivamente la temperatura della miscela acqua/cereali fino a determinati livelli tramite riscaldamento diretto dell’impasto (pentolone sul fuoco)
  • L’ammostamento a infusione “inglese” consiste nell’aggiunta di acqua bollente per innalzare la temperatura del mosto. Si calcola il quantitativo di acqua bollente da aggiungere in modo da ottenere dalla miscela la temperatura desiderata.
  • La decozione consiste nel prelevare una parte dell’impasto e portarlo a ebollizione separatamente. Successivamente, questo viene rimescolato alla miscela principale con lo scopo di innalzare la temperatura. Facendo bollire una parte dei grani si ottiene una migliore estrazione degli amidi, i quali verranno convertiti dagli enzimi quando questo verrà rimescolato con il mosto principale. Inoltre, grazie alla bollitura si verifica una leggera “caramellizzazione” che conferisce un sapore più pieno e un gusto più maltato alla birra finita.

Filtrazione

Conclusa la fase di ammostamento si procede con la filtrazione e il risciacquo delle trebbie. In questa fase il mosto liquido viene separato dalle trebbie.

Il processo prevede di aprire il rubinetto di scarico del tino di filtrazione e far confluire, lentamente (circa un litro al minuto), il liquido in un’altra pentola di raccolta. Il consiglio è quello di non eseguire filtrazioni rapide perché si potrebbero portare diverse impurità nella pentola di raccolta. Queste impurità, in fase di bollitura, generano un eccesso di tannini nella birra finita.

Estratto il primo mosto bisogna recuperare tutti quegli zuccheri che sono rimasti imprigionati nelle trebbie. Per fare ciò, si procede con l’aggiunta di ulteriore acqua calda (a circa 78° C), recuperando in questo modo ulteriore mosto attraverso una nuova fase di filtrazione. Questa seconda fase viene chiamata risciacquo o sparging.

Dal punto di vista pratico esistono diversi metodi per realizzare la fase di sparging, suddivisi principalmente in due approcci, fly e batch.

Fly sparge

Con questo metodo, il livello del liquido nel tino di filtrazione viene mantenuto costante senza che questo scenda troppo esponendo le trebbie all’aria[1]. Quindi, mentre il mosto esce dal rubinetto di scarico, viene moderatamente aggiunta al tino di filtrazione altra acqua calda.

Batch sparge

Il batch sparge consiste nel terminare la prima fase di scarico del mosto senza aggiunta di acqua. Successivamente bisogna chiudere il rubinetto di scarico e aggiungere acqua calda alle trebbie, rimescolando il tutto. A questo punto si attende che le parti solide si depositino formando nuovamente il letto di trebbie e si riapre il rubinetto per il secondo scarico del mosto.

Questo processo può essere ripetuto più volte. Di norma si considera terminato il risciacquo non appena la densità del mosto estratto scende al di sotto di 1,010.

No sparge

È anche possibile non eseguire nessuna forma di risciacquo e recuperare solo il mosto ricavato dalla prima estrazione. La scelta di tale soluzione potrebbe essere motivata dalla volontà di creare una birra dal tenore alcolico elevato.

Bollitura del mosto

A questo punto si passa alla fase di bollitura.

In questa fase si svolgono funzioni importanti:

  • Estrazione delle sostante amaricanti e aromatiche del luppolo e di ulteriori spezie
  • Sterilizzazione del mosto
  • Concentrazione del mosto a causa dell’evaporazione
  • Formazione di coaguli di proteine la cui rimozione, se eseguita, influisce positivamente sulla trasparenza della birra

Con l’introduzione del luppolo in fase di bollitura ha luogo il rilascio di sostanze amaricanti e aromatiche nel mosto. Brevemente, se il luppolo viene inserito a inizio bollitura allora si privilegerà il rilascio di sostanze amaricanti. Al contrario, se lo stesso viene inserito quasi a fine bollitura, si darà più spazio alle sostanze aromatiche e agli olii essenziali. Queste conferiscono alla birra componenti che vanno a completare il bouquet aromatico del prodotto.

Responsabili dell’amaro sono i cosiddetti α-acidi[2], difficilmente solubili in acqua o nel mosto, i quali proprio grazie alla bollitura vengono convertiti in iso-α-acidi. Sotto questa forma, sono più solubili e rendono la birra più amara. Il livello di solubilizzazione degli iso-α-acidi dipende da alcuni fattori

  • durata della bollitura: maggiore è il tempo di bollitura dei luppoli maggiore sarà il grado di “amaro” rilasciato. Di norma, non si va oltre i 60-90 minuti di bollitura, tempo oltre il quale il livello di solubilizzazione diminuisce.
  • densità zuccherina del mosto: mosti molto diluiti permettono una migliore solubilizzazione, al contrario, mosti densi ne limitano lo scioglimento. In questo ultimo caso si può ovviare al problema aumentando il quantitativo di luppolo previsto dalla ricetta.

Per accrescere maggiormente le sostanze aromatiche che il luppolo è in grado di cedere al mosto è consuetudine inserire il luppolo direttamente in fase di fermentazione, a mosto freddo. Questa tecnica viene comunemente denominata “dry hopping”. È spesso utilizzata per produrre quegli stili di birra nei quali si vuole esaltare alcune componenti aromatiche, come le Pale Ale inglesi.

I luppoli in commercio sono venduti in diverse forme: coni (fiori essiccati), plugs (coni pressati), pellets (pastiglie).

Altra funzione importante che il processo di bollitura scaturisce è la formazione di coaguli proteici. Queste aggregazioni proteiche[3], se lasciate nel mosto, causano torbidità ed evanescenza della schiuma nella birra finita. Il fatto che questi coaguli si formino durante il processo di bollitura è un vantaggio perché questo permette il loro asporto. Inoltre, sembra che la mancata rimozione di questi coaguli possa influenzare il lavoro del lievito nella successiva fase di fermentazione.

Durante la bollitura, avviene anche una riduzione di volume del mosto a causa dell’evaporazione. Questo non rappresenta un problema visto che si è soliti recuperare mosti molto diluiti in fase di filtraggio e risciacquo. In caso di evaporazione eccessiva si può rimediare con l’aggiunta di acqua direttamente nel fermentatore.

Infine la bollitura attua un processo di sterilizzazione del mosto. Infatti, prima di questa fase non è indispensabile fare attenzione alla sanitizzazione delle attrezzature o del mosto stesso. Si può approfittare della stessa fase di bollitura per sterilizzare alcuni componenti, come mestoli o serpentine di raffreddamento. In questo caso è utile effettuare l’immersione delle attrezzature 20 minuti prima della fine della fase di bollitura.

Fermentazione

E si giunge infine all’ultima fase di produzione, quella della fermentazione. È da considerarsi la fase più importante, ma anche quella meno controllabile da parte del birraio. Brevemente, con questo processo si intende il consumo di zuccheri da parte del lievito e la conseguente formazione di anidride carbonica, alcool e altre sostanze aromatiche.

Il lievito (Saccharomyces cerevisiae)  è un microrganismo unicellulare in grado di metabolizzare diversi carboidrati, dando luogo a fermentazione alcolica.

In commercio è possibile reperire lieviti in due formati, liquidi e secchi.

Il lievito secco subisce una riduzione del contenuto dell’acqua nella cellula, mediante essicazione. Durante l’essicazione le cellule si rimpicioliscono e si disidratano, arrivando a condizioni limite della loro vita. Se si intende usare del lievito secco per la propria produzione è buona norma eseguire una reidratazione del lievito. In genere e sufficiente mescolare il contenuto di una bustina in poca acqua per almeno mezz’ora prima dell’inoculo nel fusto.

Differente è il trattamento previsto per i lieviti liquidi. Le confezioni reperibili in commercio non hanno, al loro interno, un numero sufficiente di cellule per garantire una immediata partenza della fermentazione. Per ovviare al problema si applica una procedura per la moltiplicazione delle cellule. Questa procedura prende il nome di starter.

In conclusione, se si decide di utilizzare lieviti secchi si avrà una maggiore semplicità di impiego e si ridurranno i rischi di contaminazione. Con i liquidi, invece, bisogna fare molta attenzione nella preparazione dello starter ma in compenso si avrà a disposizione una più elevata scelta di ceppi differenti.

Starter

Con il termine starter si indica la preparazione di un quantitativo limitato di mosto da dare in pasto al lievito che, nel fermentarlo, andrà ad aumentare il numero di cellule. Normalmente si parla di circa 0,5 litri di mosto da preparare per 23 litri di birra. In caso di quantitativi maggiori è consigliabile preparare starter anche di 1,5 litri.

La preparazione è semplice, si mettono a bollire 0,5 litri di acqua con circa 60 grammi di estratto secco di malto per una decina di minuti. Si lascia raffreddare il mosto a circa 25°C, si versa il tutto in una bottiglia e si inocula il lievito. Si chiude la bottiglia applicando un gorgogliatore sul tappo. In 48 ore il lievito avrà il tempo necessario per moltiplicarsi e fornirci un numero adeguato di cellule da usare per la fermentazione. È importante ricordarsi sempre che qualunque oggetto entri in contatto con il lievito andrà sanitizzato.

Ruolo dell’ossigenazione

La fase di areazione ricopre un ruolo fondamentale durante la fermentazione perché permette una buona moltiplicazione cellulare. In presenza di ossigeno, il lievito darà inizio alla fase di fermentazione (aerobica). In questa fase il lievito si nutrirà dell’ossigeno disciolto attuando una moltiplicazione cellulare. Al termine delle scorte di ossigeno il lievito passa alla fase di fermentazione anaerobica nutrendosi di zuccheri e formando anidride carbonica e alcool.

Esistono diverse tecniche per ossigenare il mosto e qui di seguito elencheremo le più comunemente usate valutando pregi e difetti di ognuno di loro.

Quella più comunemente usata da chi pratica l’arte del homebrewing è chiamata splashing. Consiste nel versare il mosto nel fermentatore provocando un vigoroso rimescolamento contro le pareti. Oltre al riversamento del mosto è utile mescolare energicamente il tutto garantendo così ulteriore apporto di ossigeno.

Altra tecnica, ma di minore praticità, è quella di ossigenare il mosto utilizzando pompe da acquari. Nel caso in cui si utilizzi ossigeno puro la percentuale di saturazione sarà nettamente superiore alle tecniche precedentemente descritte[4].

Durata

Non vi sono regole ben precise in merito. Indicativamente è buona norma lasciar fermentare il mosto per circa una settimana. Questo tipo di fermentazione prende il nome di fermentazione primaria, nella quale il lievito consuma gran parte degli zuccheri presenti. Durante la fermentazione primaria si può notare la formazione di schiuma in superficie oltre al tanto atteso “borbottio” del gorgogliatore[5]. Trascorsa la prima settimana il mosto viene trasferito in un secondo fermentatore dando inizio alla fase di maturazione. Lo scopo del travaso è quello di separare il mosto dallo strato di lievito che si deposita durante la fermentazione primaria. Sembrerebbe infatti che il contatto del mosto con il lievito depositato causi problemi di autolisi[6]  oltre a compromettere il gusto nella birra finita.

Imbottigliare

Terminata la fermentazione si procede con l’imbottigliamento del prodotto.  In questo caso non si parla più di mosto ma di birra anche se ancora giovane e non frizzante. Durante la fermentazione, a causa anche delle alte temperature (dai 18° ai 24°C) viene dispersa parte dell’anidride carbonica lasciando la birra poco frizzante, piatta. Si rende quindi necessario creare un processo automatico che dia la possibilità alla birra di generare ulteriore anidride carbonica. Questo processo prende il nome di carbonazione. Si tratta di far fermentare piccole quantità di zuccheri dai lieviti direttamente in bottiglia.  Poichè si tratta di bottiglie chiuse ermeticamente questo permette all’anidride carbonica generata di disciogliersi direttamente nella birra, causando l’effervescenza al momento dell’apertura.

L’aggiunta di zuccheri semplici all’interno delle bottiglie prende il nome di priming. Il metodo consiste nel far bollire un piccolo quantitativo di acqua insieme alla quantità di zucchero necessario. Questo liquido zuccherino va aggiunto alla birra presente nel fermentatore e mescolato delicatamente per evitare di ossidare la birra. Una volta eseguita tale operazione si può procedere con l’imbottigliamento evitando, anche in questo caso, lo “splashing”, ovvero schizzi e formazione di schiuma. Per evitare tale problema è pratico l’utilizzo di un’asta di travaso applicata alla fine del tubo. L’erogazione avviene solo premendo la punta dell’asta sul fondo della bottiglia, arrestandosi immediatamente quando si cessa di premere.

Dopo l’imbottigliamento, è consigliabile mantenere le bottiglie a temperatura ambiente (anche fino a 25°C) per un paio di settimane. In questo modo si favorisce la rifermentazione in bottiglia.

Conclusioni

Oggigiorno la produzione di birra dentro le mura casalinghe sta vivendo una forte crescita. Il facile reperimento di informazioni in internet unita alla maggior disponibilità dei prodotti per homebrewing sta creando un movimento birraio come non si era mai visto prima in Italia.

Per chiunque intenda intraprendere questa meravigliosa strada consiglio di lasciarsi guidare dalla creatività. All’inizio è normale incontrare qualche difficoltà e imbattersi in risultati deludenti ma la passione, unita alla determinazione, vi daranno delle belle soddisfazioni.

Ricordo i miei primi tentativi con il metodo E + G. Ero ben consapevole del fatto che i risultati non sarebbero stati paragonabili con quanto di buono fino ad allora avessi assaggiato. Ma sapevo che qualunque cosa io facessi avrebbe arricchito sempre di più la mia esperienza e mi avrebbe aiutato a centrare meglio gli obbiettivi. Da li a poco passai alla tecnica All Grain e, cotta dopo cotta, posso ritenermi, oggi, abbastanza soddisfatto dei risultati conseguiti.

Quando decido di creare una nuova birra il primo passo che faccio è quello di idearla nella mia testa conferendo a essa le caratteristiche che dovrà avere. Ed è lì che la creatività prende il controllo e ne disegna ogni contorno. La vasta scelta di malti, luppoli, spezie e lieviti formano la nostra ricchissima “tavolozza di colori” e sta a noi decidere quali colori utilizzare per la nostra tela.

In conclusione, il processo per produrre birra in casa è attuabile senza grosse difficoltà da chiunque voglia cimentarsi in questo nuovo mondo. Non lasciatevi intimorire, il processo di produzione è antico quasi quanto l’uomo, e la sua naturalezza renderà tutto molto semplice e appagante.

[1] L’esposizione causa processi ossidativi con conseguenze negative sul prodotto finito.

[2] Nelle confezioni di luppolo sono comunemente indicati con la dicitura AA%

[3] Chiamate anche hot break

[4] Con soli 2 minuti si raggiungono livelli di saturazione  con percentuali che vanno sopra il 140%.

[5] L’anidride carbonica creata dal lievito fuoriesce dal gorgogliatore generando una specie di  “borbottio“. Tuttavia l’uso del gorgogliatore va inteso come strumento di isolamento del mosto e non come monitoraggio dell’attività di fermentazione.

[6] Processo biologico attraverso il quale una cellula si autodistrugge  (cioè “digerisce” se stessa, a causa di certi enzimi).

Tratto da Il racconto della Birra – autore Giovanni Bruno

Homebrewing – Parte 2

il racconto della birra_cop.inddAll Grain

Questo termine indica il metodo di produzione che utilizza come ingrediente principale il malto d’orzo in grani ed è quello comunemente utilizzato in qualunque birrificio artigianale e industriale. Uno dei vantaggi a favore della tecnica all grain sta nei costi del malto d’orzo. Questo, infatti, è più economico rispetto all’estratto di malto. Altro vantaggio sta nella qualità del prodotto finito, sicuramente di livello superiore. Di contro, per produrre birra utilizzando la tecnica all grain, è necessaria un’attrezzatura aggiuntiva con conseguente aumento della spesa. Inoltre la durata del processo aumenta fino ad arrivare a 6-7 ore complessive.

Il risultato finale si può dire pienamente soddisfacente.  Infatti, con il metodo all grain è possibile fare birra partendo dal malto, progettandola e realizzandola su misura e scegliendo fra l’ampia varietà di colori e sapori dei malti e degli altri ingredienti.

Il resto del capitolo analizzerà i vari aspetti di questa tecnica di produzione spiegando i singoli passaggi fino ad arrivare all’ultima fase che è quella dell’imbottigliamento. Si tenga presente che il procedimento descritto riguarda l’alta fermentazione: la realizzazione casalinga di una birra a bassa fermentazione All Grain richiede competenze superiori.

Analizziamo prima però l’attrezzatura richiesta.

Attrezzatura

Rispetto a quanto descritto per le tecniche da kit ed E + G, per la tecnica all grain saranno necessarie ulteriori attrezzature.

Per prima cosa occorre poter macinare il malto d’orzo tramite l’impiego di un mulino. È forse l’elemento più costoso, ma ha un ruolo fondamentale nell’intero processo perché da esso dipende una adeguata macinazione dei grani. Questi dovranno essere schiacciati e non tritati senza che venga creata troppa farina. Il mulino più idoneo è quello a rulli facilmente reperibile in commercio.

Una pentola per l’ammostamento dei grani, oltre a quella già descritta per la fase di bollitura. Per migliorare il processo di produzione è utile applicare, internamente alla pentola, un cestello bucherellato oltre a un rubinetto per lo scarico del liquido. Quest’accorgimento facilita notevolmente la fase di recupero del mosto separando la parte liquida (mosto) da quella solida (trebbie).

In alternativa è possibile realizzare sistemi di filtraggio che non richiedono grosse spese economiche, come per esempio lo “zapap”[1]. Consiste nell’utilizzo di due secchi di plastica per alimenti che possono incastrarsi uno dentro l’altro. Il secchio interno verrà forato alla base mentre, il secchio esterno, verrà fornito di un rubinetto per lo scarico. Un’altra possibilità, consiste nel trasformare una comune ghiacciaia da pic-nic. In questo caso bisogna forare la ghiacciaia alla base per poter applicare un rubinetto. Occorre poi costruire un filtro da disporre al suo interno. Si tratta di un tubo di gomma da inserire nella parte interna del rubinetto di scarico. Questo tubo deve essere dotato di una serie di fori  di lunghezza 1-2 mm distanziati tra loro per 1-1,5 cm.

È importante infine utilizzare un sistema di raffreddamento del mosto perché, con questa tecnica, l’intero quantitativo di acqua raggiunge alte temperature[2] (100°C). In commercio esistono alcune soluzioni per raffreddare il mosto. Una di queste è una serpentina in metallo (solitamente in rame) collegabile a un flusso di acqua da immergere nel mosto bollente. L’acqua viene fatta scorrere al suo interno determinando uno scambio termico tra l’acqua fredda e il mosto bollente. In alternativa si può immergere la pentola, contenente il mosto bollente, in una vasca d’acqua gelida in modo da favorire, il più velocemenete possibile, lo scambio termico.

Non strettamente necessari, ma comunque consigliati sono:

la tintura di iodio. Il suo scopo è quello di verificare la corretta conversione dell’amido in zuccheri durante la fase di ammostamento. La tintura di iodio a contatto con l’amido acquista una colorazione nerastra (cosa che non avviene quando è a contatto con gli zuccheri). In questo modo, si può verificare se tutto l’amido è stato trasformato. Se il colore diventa rossastro, la conversione è avvenuta con successo mentre, se diventa nerastra, bisogna continuare ancora la fase di ammostamento. Attenzione: la tintura di iodio è tossica, quindi non rimettere nella pentola il contenuto di mosto impiegato per la verifica!

Un test di misurazione del pH. Il valore del pH, ovvero dell’acidità, può essere verificato attraverso un apparecchio chiamato “pHmetro”. Alternativamente possono essere usate le classiche cartine tornasole facilmente reperibili, oltre presso i classici rivenditori di materiale per homebrewing, nei negozi di attrezzatura per acquari. Monitorare i livelli di pH è importante, come vedremo più avanti, per garantire la corretta attivazione di particolari enzimi.

Pulizia e sanitizzazione

La riuscita di una buona birra dipende dalla pulizia e sanitizzazione di qualunque cosa entri in contatto con il mosto. Con il termine pulizia si intende la rimozione di materiale organico dalla strumentazione e dalle attrezzature mediante l’impiego di detergenti. La sanitizzazione si occupa invece di eliminare la maggior parte di agenti patogeni, come batteri e lieviti selvaggi.

Applicare queste due fasi al processo produttivo è importante perché si abbassano i rischi di contaminazione. Infatti, il mosto è un’eccellente fonte di nutrienti utili alla vita di molti organismi, non solo dei lieviti. Qualsiasi organismo che finisce nel mosto inizia a crescere, producendo sottoprodotti metabolici che portano ad aromi e sapori normalmente non associati alla birra. Per questo è fondamentale prendere tutte le precauzioni per evitare di contaminare la birra con agenti esterni indesiderati.

Sanitizzare non significa sterilizzare come spesso si intende. La sterilizzazione è il risultato finale di procedimenti fisici e/o chimici che, attraverso metodologie standardizzate, hanno come obiettivo la distruzione di ogni microrganismo vivente, sia esso patogeno o no, in fase vegetativa o di spora.

Come verrà spiegato più avanti, con la fase di bollitura si effettua una sterilizzazione del mosto. Riguardo alla pulizia e alla sanitizzazione dell’attrezzatura si possono utilizzare tanti prodotti reperibili in commercio come

Soda caustica: ottimo per bottiglie incrostate. Se lasciata a contatto per qualche ora con l’attrezzatura è in grado di eliminare le incrostazioni derivanti dal mosto

Solvay o carbonato di calcio: usato in soluzione acquosa calda è ottimo per sgrassare bicchieri ed elementi in vetro

Ipoclorito di sodio: è la comune candeggina. È un sanitizzante molto comune ed economico. Si utilizza lasciando a contatto l’attrezzatura per 20-30 minuti in una soluzione dello 0,2%, ossia circa un cucchiaio ogni 10 litri di acqua. L’attrezzatura va successivamente sciacquata con abbondante acqua calda.

Metabisolfito di potassio: non è efficacie come sanitizzante, ma il suo utilizzo impedisce fermentazioni secondarie o anormali. Ha proprietà riducenti e antisettiche.

[1]Il nome deriva da Charlie Papazian, decano degli homebrewer americani. Pare sia stato lui a inventare questo semplice ma efficace sistema di filtraggio

[2] Il mosto a temperatura di ebollizione è sterile, ma a temperature più basse può essere suscettibile a infezioni. Quindi maggiore è il tempo impiegato per raffreddare il liquido maggiore sarà la probabilità che si infetti.

Tratto da Il racconto della Birra – autore Giovanni Bruno

Homebrewing – Parte 1

il racconto della birra_cop.inddIl Racconto della Birra è un saggio che razionalizza e condensa in un’unica fonte un insieme di informazioni spesso già reperibili altrove ma irrimediabilmente disperse.  All’interno del saggio è presente un capitolo dedicato al mondo del homebrewing trattato dal sottoscritto. Riporto sul mio blog quanto da me scritto suddividendo il capitolo in 3 parti.

Spesso si associa la produzione di birra a processi industriali, ma è bene sapere che produrre birra in casa è molto semplice e che, fino al XIX secolo, era consuetudine preparare questa inebriante bevanda all’interno delle mura casalinghe[1].

In questo capitolo verranno spiegati, dettagliatamente, i vari passaggi di produzione, da come il semplice malto d’orzo, unito all’acqua, viene in un primo momento trasformato in mosto[2] (fase di ammostamento), successivamente amaricato con il luppolo (fase di bollitura) e infine dato in pasto al lievito (fermentazione).

Esistono tre metodi differenti che permettono di produrre birra e ognuno di questi metodi si differenzia per semplicità di esecuzione, attrezzatura richiesta e tempi di lavorazione.

Metodi per la produzione

Le tecniche adoperate per produrre birra in casa sono le seguenti:

1) estratto da kit (estratto di malto luppolato)

2) estratto di malto non luppolato con aggiunta di luppolo ed eventuali grani speciali (E+G)

3) malto d’orzo in grani (All Grain)

I primi due metodi utilizzano estratti di malto[3]; in questo modo si permette, al neofita, di saltare le prime fasi di produzione (ammostamento e filtrazione) e concentrarsi sugli altri aspetti del processo produttivo  (bollitura, fermentazione e imbottigliamento). La semplicità nei primi due metodi, va però a discapito della qualità del prodotto finito.

Vediamoli ora nel dettaglio.

Kit

All’inizio molti decidono di cominciare a produrre birra utilizzando il metodo del kit. Con il termine kit si indica, normalmente, un “pacchetto” complessivo acquistabile presso negozi specializzati: in esso si trovano alcuni attrezzi, elencati in seguito, più una latta di mosto concentrato e amaricato e una bustina di lievito secco.

La tecnica consiste nel seguire un semplice procedimento: si comincia col preriscaldare la lattina di estratto in acqua calda per circa 15 minuti. In questo modo si rende l’estratto molto più fluido facilitando la fase successiva.

Una volta aperta la latta, si versa il contenuto in una pentola contenente circa 5 litri di acqua calda, si mescola il tutto e si fa raffreddare il mosto preparato. Questo, infine, viene versato nel fermentatore e diluito con ulteriore acqua fredda (secondo ricetta del produttore) fino a raggiungere la quantità prevista.

Si aggiunge il lievito secco presente nella stessa confezione dell’estratto luppolato, si mescola il tutto in modo da far ossigenare il mosto e si lascia fermentare per circa 2 settimane, prima di passare all’imbottigliamento.

L’attrezzatura necessaria per produrre birre da estratto luppolato consiste nei soli componenti per la fermentazione. In particolare, questi kit comprendono:

  • Un bidone (o due a seconda della marca del kit) per la fermentazione con un rubinetto di scarico in basso, in materiale plastico per alimenti
  • Un termometro digitale adesivo per controllare la temperatura di fermentazione
  • Un gorgogliatore[4]
  • Un densimetro[5]
  • Una provetta per effettuare la misura della densità
  • Una spatola per mescolare e aerare il mosto
  • Un tubo per travasare la birra nelle bottiglie
  • Una tappatrice per tappi a corona e una confezione di tappi
  • Eventuali tubi per travasi
  • Polvere detergente e sanitizzante (metabisolfito di potassio)

Questo sistema permette di produrre birra saltando alcune fasi di produzione come l’ammostamento, la filtrazione delle trebbie[6] e la bollitura. Il kit garantisce sicuramente una maggiore semplicità d’uso rispetto alle altre tecniche di produzione, ma di contro non permette nessuna personalizzazione, abbassando anche il livello di soddisfazione.

E+G

Ovvero estratto + grani. Questa tecnica prevede l’utilizzo di estratto di malto non amaricato, di luppolo e di piccole quantità di “grani speciali”, cioè tipologie di grani che contribuiscono a donare sapore e colore alla birra. Questi grani non necessitano di ammostamento perché, in fase di maltazione[7], hanno già subito una conversione dell’amido in zuccheri. Il loro impiego permette di variare il gusto, conferendo alla birra sentori di caramello, contribuendo al colore e influenzando corpo e dolcezza della birra finita.

Il procedimento inizia con la frantumazione dei grani. Questi vengono immersi in acqua a una temperatura di circa 70° C per un tempo di 30/40 minuti. Così facendo si sciolgono gli zuccheri e le sostanze aromatiche presenti nei grani. Trascorso il tempo necessario, vengono rimossi i grani e si porta il liquido ottenuto a ebollizione. Per facilitare la rimozione dei grani esistono dei sacchetti (grain bag) appositamente creati per poter contenere i grani da immergere in acqua.

La fase di bollitura, che verrà descritta con maggiori dettagli nella sezione All Grain, non richiede tempi lunghi e ha lo scopo di amaricare il mosto (aggiunta dei luppoli) oltre che di renderlo sterile. Di norma non si superano i 30/40 minuti. Se si allungano tali tempi si va incontro alla reazione di Maillard[8] con conseguente imbrunimento del mosto.  Di contro, accorciando i tempi di bollitura si riduce la quantità di amaro rilasciato dai luppoli. In quest’ultimo caso si può ovviare al problema aumentando la quantità di luppolo rispetto a quella prevista dalla ricetta.

Durante la fase di bollitura va aggiunto, oltre al luppolo, l’estratto di malto. Gli estratti non luppolati sono il risultato della concentrazione del mosto dopo la fase di ammostamento. L’estratto, in questo modo, presenta solo la materia prima zuccherina concentrata, senza le sostanze amaricanti. L’uso di questi estratti permette di avere maggiore controllo sulla birra finita; variando l’uso dei luppoli e dei grani si può ottenere una maggiore aromaticità e avere, allo stesso tempo, birre più fragranti e profumate. Si può quindi scegliere la tipologia e la quantità di luppolo da impiegare, dosando così il grado di amaro.

La procedura di lavoro si può riassumere brevemente in questo modo:

  • Portare il quantitativo di acqua necessario a una temperatura di 70° C ed eseguire l’infusione dei grani speciali (30/40 minuti)
  • Filtrare il liquido dai grani
  • Versare l’estratto di malto e portare a ebollizione
  • Aggiungere il luppolo nella quantità indicata dalla ricetta
  • Far bollire vigorosamente per il tempo necessario (circa 30 minuti)
  • Raffreddare il mosto il più velocemente possibile
  • Travasare il mosto nel fermentatore e diluire con acqua fino al volume previsto (la temperatura finale deve essere compresa tra 24-28° C).
  • Mescolare vigorosamente il mosto per ossigenarlo il più possibile[9].
  • Aggiungere il lievito.

Con il metodo E+G si necessita di un’attrezzatura più completa per via della fase di bollitura. Rispetto al kit, va incluso quindi l’utilizzo di una grossa pentola oltre che di eventuali sacchetti per il contenimento dei luppoli (hop bag). Il resto dell’attrezzatura rimane identica a quella da kit.

In conclusione, la tecnica appena descritta permette di avere un maggior controllo sulla qualità del prodotto finito variando colore e grado di amaro. Il difetto, per chi produce birra usando la tecnica E + G, sta nella mancanza di informazione sugli estratti di malto. Non è infatti possibile conoscere quali malti siano stati utilizzati per la produzione di questi estratti. Ne consegue un profilo aromatico che può rivelarsi insoddisfacente. Questo inconveniente viene risolto utilizzando la tecnica sotto descritta.

[1]In Italia la produzione casalinga di birra è diventata legale solamente nel 1995 (Decreto Legislativo n. 504 del 26/10/1995 art. 34 comma 3: È esente da accisa la birra prodotta da un privato e consumata dallo stesso produttore, dai suoi familiari e dai suoi ospiti, a condizione che non formi oggetto di alcuna attività di vendita).

[2] Con l’ammostamento si converte l’amido contenuto nel malto d’orzo in zuccheri semplici. Senza tale conversione il lievito non sarebbe in grado di nutrirsi e di conseguenza non si avrebbe la produzione di alcool e anidride carbonica.

[3] Gli estratti di malto sono concentrati di malto d’orzo. Questi concentrati sono reperibili in commercio in formato liquido o secco (solo estratto di malto non amaricato).

[4] Consiste in una valvola che permette all’anidride carbonica prodotta dalla fermentazione di uscire, ma non permette all’aria esterna di entrare.

[5] Il densimetro è uno strumento che permette di misurare la densità di un liquido.

[6] Termine usato per identificare le glumelle del malto d’orzo prive della sostanza zuccherina estratta durante la filtrazione

[7] È il processo in cui la malteria trasforma l’orzo in malto d’orzo. A seconda della temperatura impiegata per l’essiccamento avremo a disposizione diverse tipologie di malti che variano dal più chiaro malto Pils a quelli più scuri e torrefatti come il Black.

[8] Per reazione di Maillard si intende una serie complessa di fenomeni che avviene a seguito dell’interazione con la cottura di zuccheri e proteine. I composti che si formano con queste trasformazioni sono bruni e dal caratteristico odore di crosta di pane appena sfornato.

[9] L’ossigeno è un nutrimento essenziale per il lievito.

Tratto da Il racconto della Birra – autore Giovanni Bruno

Le materie prime

Quattro sono gli ingredienti che nella quasi totalità dei casi leggiamo nel retroetichetta della bottiglia: malto d’orzo e quindi, più in generale i cereali, il luppolo, l’acqua e il lievito.

I cereali

L’ingrediente che dona gli zuccheri necessari per dar vita alla fermentazione alcolica è il cereale. Il birraio può scegliere tra numerose varietà: orzo, frumento, segale, mais, avena, farro, per citarne alcuni. Uno tra questi però è considerato a buon ragione il cereale perfetto. Così come il grano è il principe della panificazione, l’orzo sembra nato per finire nei tini di un birrificio: è ricco di amido, zucchero complesso; ha un rivestimento della cariosside che crea un letto naturale per la filtrazione; contiene degli enzimi che una volta attivati rendono la vita molto facile ai lieviti, e, aspetto non da poco, regala alla birra sapori e profumi affascinanti. Non è un caso allora se questa pianta è stata scelta dall’uomo del neolitico, qualcosa come 10.000 anni fa per produrre birra. Tra le numerose varietà di orzo coltivate a scopi birrari, le più diffuse sono due: l’orzo distico, contraddistinto da due file di chicchi sulla spiga e amante di climi freschi e l’orzo esastico, con sei file di chicchi coltivato tendenzialmente in aree più calde. In genere i produttori di birra preferiscono il primo al secondo per motivi produttivi e qualitativi del prodotto finale.

Il malto

Per facilitare il processo di fermentazione e dotare il chicco di un peculiare corredo aromatico e cromatico i cereali, generalmente l’orzo, vengono maltati. Con il termine malto si indica un cereale che ha subito la maltazione, ovvero, un processo di germinazione e successiva essiccazione.
L’obiettivo è quello di attivare gli enzimi contenuti nel chicco, in modo da facilitare durante la produzione l’estrazione di zuccheri semplici (maltosio e destrine) dall’amido, carboidrato complesso. Il maltosio sarò poi trasformato dai lieviti in alcol etilico e anidride carbonica. Nella malteria il chicco viene idratato, in modo da creare quelle condizioni ambientali ideali per far partire la germinazione, e successivamente asciugato su pavimenti in ambienti ben areati a temperature intorno ai 16 C°. Il chicco in questa fase si trova nei germinatoi, dove viene rigirato più volte al giorno per permettere una corretta ossigenazione ed evitare che i germogli si attorciglino l’un con l’altro. Quando, dopo poco più di una settimana, la radichetta ha raggiunto i due terzi del chicco e gli enzimi hanno contribuito ad importanti trasformazioni biochimiche, il cereale tallito, ovvero germinato, viene trasferito nel forno di maltaggio. Qui si pone fine alla germinazione scaldando il cereale a temperature che arrivano ai 70° circa per i malti chiari fino agli oltre 200° di alcuni malti tostati. Dopo la fase di essiccazione i malti vengono raffreddati e la radichetta viene rimossa. Per ogni birra si può usare un malto soltanto o più malti differenti e aggiungere anche cereali non maltati. La legislazione italiana stabilisce che si possa chiamare birra quella bevanda prodotta dalla fermentazione di un mosto di cereali ottenuto con almeno il 60% di frumento o orzo maltati.

Malti base

Sono chiamati così i malti caratterizzati da un elevato potere enzimatico e da una resa produttiva importante. Ne fanno parte malti presenti in molte ricette come i chiari Pale o Pilsner, alla base di molte birre dorate, ma anche malti prodotti a temperature più elevate che colorano d’ambra la nostra birra e contribuiscono ai tipici profumi biscottati, come ad esempio il malto Vienna e il Monaco.

Malti speciali

Il birraio può decidere di introdurre malti speciali nella sua ricetta per contribuire a dare un
particolare colore, sapore, aroma alla birra o per aggiungere proteine e quindi migliorare la schiuma o ancora per modificare il corpo e la struttura. Solitamente sono utilizzati in percentuali più basse rispetto ai malti base. Tra questi ricordiamo il malto caramello come il CaraMunich, CaraVienna, o ancora il Crystal, che donano sensazioni dolci come il mou, oppure i malti torrefatti, che colorano di nero la nostra birra e la arricchiscono di note che ricordano il caffè, il cacao.

Malti affumicati

Sono malti che hanno subito un processo di essiccazione tramite aria calda ottenuta dal riscaldamento di pellets di faggio o quercia. Sono usati in piccola percentuale, visto che caratterizzano in maniera netta la birra con sentori che richimano lo speck o la provola, come per la famosa Schlenkerla di Bamberga. Appartengono a questa categoria anche i malti torbati, utilizzati per la produzione di whisky, affumicati con torba, un composto organico di natura vegetale che bruciato produce aromi estremamente caratteristici.

Il luppolo

C’era una volta un mix di erbe aromatiche, spezie e radici chiamato Gruyt, che il birraio utilizzava per bilanciare il dolce del malto e dare stabilità e longevità grazie alle proprietà antisettiche di alcuni ingredienti. C’era, perché a partire dal XII secolo il luppolo, o più esattamente, l’infiorescenza del luppolo, una pianta rampicante appartenente alla famiglia delle Cannabacee, ha relegato il Gruyt ai libri di storia. Ma quali sono le qualità così straordinarie di questo fiore, tali da decretarne la sua diffusione in ogni birrificio del pianeta? I birrai amano il luppolo perché i suoi fiori sono ricchi di una sostanza resinosa (alfa e beta acidi) che dona amaro, e di oli essenziali, che rilasciano aromi e profumi. Come se non bastasse assicura stabilità con le sue proprietà antibatteriche, antiossidanti e favorisce la formazione della schiuma. Il suo contributo come componente amaricante è essenziale per ottenere una bevanda equilibrata e gradevole, che altrimenti risulterebbe imbevibile. In produzione di distinguono due tipi di luppolo utilizzati in differenti momenti della bollitura del mosto: gli amaricanti, a cui è affidato il compito di dare amaro, per il contenuto e la qualità degli alfa acidi, mentre alle varietà ricche di oli essenziali spetta l’importante missione di emozionarci con sensazioni olfattive e aromatiche uniche. Esistono molteplici tipologie di luppolo utilizzate dal birraio per creare bouquet variegati che possono prevedere note erbacee, pepate, terrose, fruttate, anche inconsuete. Sono storici i luppoli di Poperinge in Belgio, con l’inconfondibile nota di erba cipollina, i luppoli inglesi, come il floreale Fuggle o il nobile East Kent Golding, o ancora l’elegante luppolo ceco Saaz, e i tedeschi Tettnanger, dalle intriganti note erbacee. Più recente, ma molto diffuso, l’utilizzo di luppoli americani come il Cascade, dalle note resinose e di pompelmo rosa, e il Citra, dalle sensazione di frutta esotica, o il neozelandese Nelson Sauvin, con i suoi profumi caratterizzanti di uva spina e frutto della passione.

L’acqua

Un ingrediente troppo spesso sottovalutato ma che in realtà gioca un ruolo centrale, sia per un discorso meramente quantitativo, rappresentando oltre il 90% della birra, sia, soprattutto, qualitativo. Non tutti forse sanno che l’acqua incide in maniera evidente sul risultato finale di una birra, costringendo il birraio a prendere in considerazione le caratteristiche della falda acquifera adeguando le ricette. Quanto l’acqua sia importante nella produzione ce lo ricorda la storia della birra, quando l’ubicazione di un birrificio veniva individuata in prossimità di una fonte idonea che assicurasse acque microbiologicamente pure e adatte alla produzione. L’acqua ha giocato un ruolo fondamentale per molte birre del passato. Ad esempio la rinomata pils ceca, non sarebbe la stessa senza le caratteristiche uniche della fonte di Pilsen, dolce e dal buon livello salino, perfetta per realizzare una dorata, fresca e delicata. Senza dubbio contribuirono a rendere famose le ale inglesi le acque dure, ricche di calcio di Burton upon Trent in Inghilterra, come quelle di Dublino, con alti livelli di bicarbonati, resero immortale la nera stout irlandese. In linea di massima non esiste un acqua perfetta: la scelta dipende molto dalla tipologia che si vuole realizzare. Infatti pH e durezza possono dire la loro influenzando alcune componenti solubili del malto, il corpo, ma anche l’azione di vari enzimi fino all’estrazione delle sostanze amare del luppolo. Oggi esistono metodi e tecnologia per correggere il contenuto salino di un’acqua o, addirittura, per demineralizzarla e ricostruirla aggiungendo i sali più opportuni.

Il lievito

Un microorganismo unicellulare, un fungo, capace di compiere una magia senza uguali: trasformare il mosto in birra. Senza nulla togliere al ruolo del malto, luppolo e acqua, il primo attore è sicuramente il lievito, che non si limita a trasformare gli zuccheri in alcol e anidride carbonica, ma contribuisce a caratterizzare la birra in ogni suo aspetto, dalla schiuma, agli aromi, fino al corpo. Per comprendere l’importanza del lievito è sufficiente ricordare come le birre siano classificate in tre macrocategorie individuate sulla base del lievito utilizzato. Molti stili storici soprattutto inglesi e belgi, ma anche alcuni tedeschi (come le Weizen), appartengono all’alta fermentazione, dove protagonista è il Saccharomyces Cerevisiae, lievito utilizzato nella produzione del pane come del vino. Predilige temperature tra i 14 e i 25 gradi e durante il processo sale in superficie del tino di
fermentazione. Le birre ottenute sono genericamente denominate Ale. Nella bassa fermentazione, altra macro categoria dove ci rientrano per intenderci Pils e Bock, quindi birre tipicamente tedesche e ceche, l’attore della fermentazione è il Saccharomyces Carlsbergensis che ama temperature più basse (tra i 5 e i 12 gradi) e durante il processo si deposita sul fondo del tino. Le birre appartenenti a questa famiglia vengono genericamente denominate Lager, termine tedesco che significa magazzino, riferendosi al periodo di sosta durante la maturazione nei tini. La terza macrocategoria è la fermentazione spontanea, che diede vita alle prime birre prodotte dall’uomo, visto che avviene in maniera assolutamente spontanea appunto, senza cioè alcun inoculo (inserimento del lievito nel mosto) da parte del produttore, innescata naturalmente dai lieviti presenti nell’aria. Oggi la produzione di birre a fermentazione spontanea è limitatissima: fulgidi esempi, tutti provenienti dal Belgio, sono i Lambic, le Gueuse, le Kriek, le Framboise, anche se non mancano interessanti sperimentazioni negli USA e in Italia.

La produzione

Dopo aver definito la ricetta e ordinato le materie prime necessarie, il birraio è pronto per iniziare la produzione.

Macinazione

La prima fase è quella della frantumazione dei grani di malto d’orzo e di eventuali altri cereali impiegati. Questa azione favorirà il discioglimento del contenuto zuccherino, delle proteine e delle sostanze aromatiche, di cui il chicco e ricco, nell’acqua. Questa operazione in apparenza banale riveste una notevole importanza sul risultato finale ed una scorretta macinazione può causare problemi (es. sensazioni astringenti in caso di eccessivo sfarinamento o una resa non ottimale nel caso di macinazione grossolana).

Ammostamento

Il cereale così macinato viene miscelato in acqua. Per permettere la dissoluzione di quel corredo aromatico e zuccherino che un buon mosto richiede, il birraio riscalda l’acqua seguendo una serie di pause a temperature stabilite in modo da attivare quegli enzimi, responsabili della degradazione dell’amido (zucchero complesso) in maltosio e destrine (zucchero semplice). Per innescare questo processo che agevolerà il lavoro dei lieviti sono necessarie particolari condizioni di temperatura e acidità. L’ammostamento è quindi una fase cruciale, momento decisivo in cui si disegna l’architrave di una birra, selezionando i cereali e determinando fattori come corpo, grado alcolico, schiuma, attenuazione, etc..

Metodi di ammostamento

Il birraio può adottare differenti metodi di ammostamento. Si parla di infusione, quando la miscela viene progressivamente portata a determinati livelli di temperatura tramite riscaldamento diretto; di infusione all’inglese, se l’acqua viene scaldata separatamente e aggiunta al cereale macinato; di decozione, qualora una parte della soluzione acqua/cereale viene separata e portata ad ebollizione, e successivamente unito alla miscela principale consentendo l’aumento di temperatura desiderato.

La filtrazione

Il mosto così ottenuto presenta parti di cereale, impurità che devono essere eliminate. Si passa dunque alla filtrazione che avviene solitamente grazie ad un doppio fondo presente nel tino di ammostamento che permette di trattenere il cereale esausto, ovvero le trebbie (ricche di sostanze indesiderate che andrebbero a rilasciare sensazioni astringenti e amare molto sgradevoli). Dopo la prima filtrazione, presentando le trebbie ancora una quantità di zuccheri utili, si può procedere al recupero, aumentando così l’estrazione e l’efficienza della produzione, risciacquandole con acqua calda più volte e recuperando nuovo mosto attraverso ulteriori fasi di filtrazione (sparging).

Bollitura

La bollitura del mosto, successiva alla filtrazione, viene effettuata di norma per 90 minuti (ma si possono superare anche le 4 ore) e assolve a diverse funzioni: sterilizzare il mosto, concentrarlo mediante evaporazione, favorire la coagulazione e la successiva precipitazione di proteine e polifenoli, aromatizzare e amaricare con l’inserimento del luppolo, speziare e aggiungere ingredienti ulteriori (se previsti dalla ricetta). Proprio in questa fase fa la comparsa un ingrediente centrale nella produzione, il luppolo, a cui è affidato il compito di cedere amaro e aroma. I luppoli selezionati per dare amaro saranno inseriti in una fase iniziale della bollitura, essendo gli Alfa Acidi, responsabili dell’amaro, solubili in acqua; i luppoli da aroma, ricchi di oli essenziali, in una fase terminale, visto che i precursori responsabili dei profumi sono termolabili, ovvero sofferenti alle alte temperature.

Centrifuga e raffreddamento

Al termine della bollitura il mosto contiene elementi non graditi come i residui di luppolo e di
eventuali altri ingredienti aggiunti in bollitura, oltre alle proteine coagulate. Solitamente il birraio per raggiungere il fine procede con il whirlpool, ossia alla decantazione e rimozione delle parti solide, che grazie ad un movimento circolare del mosto, si posizionano nella parte centrale del tino. Il mosto è così pronto per essere fermentato, viene così pompato nei tini di fermentazione, passando attraverso uno scambiatore di calore che lo raffredda fino alla temperatura desiderata.

La fermentazione

Siamo finalmente giunti alla fase responsabile della trasformazione del mosto in birra. Merito della fermentazione alcolica, realizzata dai lieviti. Due sono i momenti principali di questo processo: una fase aerobica, ovvero in presenza d’aria, necessaria ad ossigenare il mosto e fornire al lievito uno spunto energetico necessario alla sua riproduzione, e una seconda fase anaerobica, in assenza di aria, in cui il lievito trasforma gli zuccheri fermentabili presenti nel mosto in alcool etilico e anidride carbonica (CO2), oltre ad altre sostanze che contribuiranno al gusto finale. Le temperature di fermentazione possono variare dai 5 sino ai 30°C, in relazione al ceppo di lievito utilizzato.

Maturazione

Quando il processo di fermentazione degli zuccheri è giunto a compimento, ossia dopo 3/7 giorni (a seconda del ceppo di lievito e della temperatura di fermentazione), e il 90 % circa degli zuccheri fermentescibili è stato fermentato, si travasa la birra giovane nei serbatoi di maturazione (sistema tradizionale) oppure si chiude ermeticamente il tank e comincia un lento abbassamento della temperatura fino ad un minimo di 1-4 °C. Parte la maturazione, altro momento decisivo per la birra, che qui si affina: il dolce del malto si armonizza con l’amaro del luppolo, gli aromi diventano più evidenti ed il lievito esausto si deposita sul fondo del serbatoio (oppurtunemente spurgato dal birraio per evitare sensazioni sgradevoli). La maturazione ha una durata differente a seconda della birra prodotta (maggiore per le lager). In maturazione, cosi come in fermentazione, possono venire aggiunte sostanze aromatizzanti come luppolo (si parla in tal caso di dry hopping) o frutta. Terminata questa fase la birra è pronta per essere confezionata (in fusto o bottiglia) per il consumo.

Rifermentazione

Per molti stili di birra ad alta fermentazione si procede, alla fine della fermentazione primaria, con l’infustamento o imbottigliamento, spesso previa filtrazione, aggiungendo nuovo lievito e nuovo mosto o altre sostanze zuccherine (zucchero, zucchero candito, zucchero di canna e qualsiasi altra sostanza utile al nutrimento fermentativo del lievito). La rifermentazione migliora la stabilità e dona complessità alla birra.

Tratto da Fermento Birra

Lievito, metodi per l’impiego


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Oggi vi voglio spiegare come preparare il lievito per una birra. Molti pensano che, una volta prodotto il mosto, basti semplicemente versare il contenuto della confezione di lievito. Anche se tale procedura risulta tutto sommato funzionale, non è delle più corrette. Vediamo il perchè.

Il lievito, acquistabile in commercio, viene venduto in due forme, secco e liquido. La forma secca presenta molte più cellule rispetto alla forma liquida e già questa caratteristica pone un problema: quante cellule di lievito sono necessarie per avviare una corretta fermentazione?

La risposta è: “dipende”. Ci sono diversi fattori che concorrono nella determinazione della giusta quantità di inoculo del lievito per produrre una buona fermentazione. Principalmente questo dipende dal quantitativo di mosto che si produce, dalla sua densità zuccherina e dal tipo di fermentazione che si intende eseguire (bassa o alta). Più aumentano i litri di mosto prodotto, maggiore sarà la quantità di lievito richiesta. Anche la densità zuccherina è direttamente proporzionale alla quantità di lievito richiesto. Infine, la temperatura di fermentazione influenza il lievito, in quanto la bassa temperatura diminuisce l’attività del lievito e il suo tasso di riproduzione durante la fermentazione.

Come regola generale si può quindi dire che una fermentazione ad alta temperatura necessita di minor lievito rispetto ad una a bassa. Inoltre, fermentare un mosto ad alta densità iniziale necessita di una quantità maggiore di lievito rispetto ad un mosto con bassa densità.

Liquido e secco

Normalmente, una bustina di lievito secco (11,5 gr) è più che sufficiente per 25 lt di mosto. In caso di quantitativi di mosto superiori a 25 lt si può valutare l’idea di impiegare due bustine di lievito. Il prezzo basso dei lieviti secchi agevola questa scelta. Differente è invece il discorso per i lieviti liquidi. Il loro prezzo si aggira intorno ai 10 euro a busta (125 ml della WYeast) e non sempre il numero di cellule presenti in busta è adatto per essere immediatamente inoculato. Ancora di più questo discorso vale per chi usa il lievito della White Labs, la fialetta presenta un minor quantitativo di lievito liquido.

In questo caso, per avere a disposizione un numero sufficiente di cellule, si adopera la tecnica dello “starter”.

 Lo starter

Con il termine starter si indica la preparazione di un quantitativo limitato di mosto da dare in pasto al lievito che, nel fermentarlo, andrà ad aumentare il numero di cellule. Normalmente si parla di circa 0,5 litri di mosto da preparare per 23 litri di birra. In caso di quantitativi maggiori è consigliabile preparare starter anche di 1,5 litri.

La preparazione è semplice: si mettono a bollire 0,5 litri di acqua con circa 60 grammi di estratto secco di malto e un paio di grammi di nutrimento per lievito  per una decina di minuti. Si lascia raffreddare il mosto a circa 25 °C, si versa il tutto in una bottiglia e si inocula il lievito. Si chiude la bottiglia applicando un gorgogliatore sul tappo. In 48 ore il lievito avrà il tempo necessario per moltiplicarsi e fornirci un numero adeguato di cellule da usare per la fermentazione. È importante ricordarsi sempre che qualunque oggetto entri in contatto con il lievito andrà sanitizzato.

Reidratazione

downloadIl lievito secco non necessita di riattivazione, ma di reidratazione, in quanto le cellule di lievito durante l’essiccazione perdono tutta l’acqua senza morire: è consigliato (ma non obbligatorio) quindi reidratarle prima dell’utilizzo in modo da velocizzare l’inizio della fermentazione.

Il procedimento è abbastanza semplice; il giorno stesso della cotta, ed esattamente  30 minuti prima dell’inoculo, si versa il contenuto della bustina in mezza tazza di acqua tiepida precedentemente sterilizzata tramite bollitura. Consiglio di aggiungere mezzo cucchiaio di zucchero e mezzo di estratto secco di malto. Ricordarsi sempre di sanitizzare qualunque cosa entri in contatto con il lievito, dalla bustina alle forbici, dalla tazza al cucchiaio, ect.

Sanitizzazione

Come accennato precedentemente, qualunque cosa entri in contatto con il lievito deve essere rigorosamente sanitizzato. Per farlo occorre riempire un contenitore di acqua ed aggiungere del metabisolfito. Lasciare in immersione la busta del lievito, le forbici che impiegheremo per aprire la busta, bottiglia, tappo e gorgogliatore.

In caso di starter, il liquido da preparare verrà sterilizzato dalla bollitura (circa 10 minuti); mentre, nel caso di reidratazione consiglio di far bollire il liquido da impiegare.

Ossigenazione

Prima di versare il lievito all’interno del mosto è importante ossigenare il mosto stesso. Durante la bollitura, infatti, le molecole di ossigeno abbandonato il mosto rendendolo privo di ossigeno.

Ossigenare correttamente è importante perchè il lievito, subito dopo l’inoculo, attiva la sua fase aerobica di sopravvivenza. In questa fase il lievito consuma ossigeno e tende a moltiplicarsi velocemente. Solo dopo aver consumato tutto l’ossigeno presente inizia a nutrirsi di zuccheri (fase anaerobica).

In conclusione, se non si vuole imbattere in problemi di fermentazione, occorre ossigenare per bene il mosto. Una tecnica comunemente usata è quella di far “splattare” il mosto quando si esegue il passaggio dalla pentola di bollitura al fermentatore. Altra tecnica è quella di mescolare vigorosamente il mosto per almeno 5 minuti. Ricordarsi che maggiore sarà l’ossigeno disciolto nel mosto migliore sarà la fermentazione.

Riutilizzo

Il lievito che si deposita sul fondo del fermentatore può essere impiegato nuovamente per un’altra cotta. I vantaggi sono almeno due: si risparmia sull’acquisto di una nuova busta di lievito e si ha a disposizione già da subito un gran numero di cellule.

Per poter adoperare il lievito sul fondo è consigliabile programmare le cotte in modo da far coincidere la produzione del nuovo mosto con l’imbottigliamento della precedente birra. In questo modo, il mosto appena prodotto può essere riversato nel fermentatore che contiene sul fondo il vecchio lievito.

Questa tecnica può anche essere utilizzata quando si ha intenzione di creare birre forti, ad alta gradazione alcolica. Va ricordato infatti che mosti ad alta percentuale zuccherina richiedono molte più cellule per avviare una corretta fermentazione.

Recupero

Alcuni homebrewers decidono di recuperare il lievito direttamente dalle bottiglie. Lo scopo è quello di avere a disposizione lieviti di famosi birrifici che difficilmente sono reperibili in commercio.

Per recuperare il lievito dalle bottiglie si può agire nel seguente modo: procurarsi una bottiglia di birra che non sia troppo invecchiata; versare delicatamente la birra in un bicchiere facendo attenzione a non versare anche il fondo di residui presenti in bottiglia. A questo punto, aggiungere in bottiglia del mosto zuccherino (anche semplice acqua e zucchero precedentemente sterilizzato) e sigillare l’imboccatura della bottiglia con un palloncino sgonfio. In questo modo l’eventuale CO2 prodotta dal lievito verrà assorbita dall’elasticità del palloncino di gomma.

Una volta eseguito questo procedimento occorrerà munirsi di pazienza, a volte il risveglio delle cellule può essere lungo e protrarsi per alcune settimane.

Spero di esser stato utile,

non rimane che rimandarvi alla prossima….birra

Ammostamento

IMG_3085L’ammostamento è la fase di produzione della birra che indica il processo di idratazione dell’orzo, l’attivazione degli enzimi del malto, e converte gli amidi dei grani in zuccheri fermentabili.

Ci sono molti gruppi di enzimi che prendono parte nella conversione degli amidi in zuccheri. Durante la maltazione, gli enzimi beta-glucanasici e proteolitici preparano gli amidi per essere facilmente aggrediti e convertiti in zuccheri. Durante l’ammostamento l’avvenimento principale è la conversione delle molecole di amido in zuccheri fermentabili e in destrine non fermentabili tramite gli enzimi diastatici. Ognuno di questi gruppi di enzimi è favorito da differenti temperature e condizioni di pH. Un homebrewer può aggiustare la temperatura di ammostamento per favorire la funzione di ciascun successivo enzima e quindi adattare il mosto secondo i propri gusti e le proprie intenzioni.

Gli amidi nel mosto possono essere disciolti in acqua a 55°C, e raggiungono il massimo scioglimento a 65°C. Sia i grani maltati che quelli non maltati hanno le loro riserve di amidi bloccate in una matrice (ndr: tipo gomitolo) di proteine/carboidrati. Questa “barriera” evita che gli enzimi entrino in contatto con gli amidi per la conversione. L’amido nel grano non maltato è più “bloccato” che nel grano maltato e rompere o schiacciare il grano aiuta lo scioglimento degli amidi durante l’ammostamento. Una volta disciolti in acqua, gli amidi possono essere gelatinizzati(resi solubili). Ovvero si portano ad una determinata temperatura questi grani non maltati e si attende che il calore rompa queste barriere. Successivamente sarà comunque necessario ammostare questi grani con il resto dei grani.

Enzima Range ottimale di Temperatura Range di lavoro del pH Funzione
 Fitasi  30-52°C 5.0-5.5 Abbassa il pH del mosto.Non più usato
 Debranching 35-45°C 5.0-5.8 Solubilizzazione degli amidi
 BetaGlucanasi 35-45°C 4.5-5.5 Rottura delle proteine
 Peptidasi 45-55°C 4.6-5.3 Produce Free AminoNitrogen (FAN).
 Proteasi 45-55°C 4.6-5.3 Rompe le grosse proteine che formano la sospensione
 Beta Amilasi 55-65°C 5.0-5.5 Produce maltosio
 Alpha Amilasi 68-72°C 5.3-5.7 Produce una varietà di zuccheri, incluso il maltosio.

Nota: i numeri sopra indicati sono mediati da differenti fonti e devono essere interpretati come i range ottimali tipici. Gli enzimi saranno attivi anche al di fuori dei range indicati ma saranno distrutti appena la temperatura salirà oltre il proprio range.

Acid Rest e Modificazione

Prima dell’inizio del secolo scorso, quando l’interazione del malto con la chimica dell’acqua non era ancora ben compresa, i mastri birrai a Pilsen usavano un range di temperatura di 30-52°C per attivare l’enzima della fitasi con lo scopo di acidificare il mosto. L’acqua in questa zone era così pura e povera di minerali che il normale ammostamento non avrebbe garantito il raggiungimento del giusto pH senza questo Acid Rest. La maggior parte delle altre zone di birrificazione nel mondo non avevano questo problema.
Il malto è  ricco di fitina, un fosfato organico contenente calcio e magnesio. La fitasi rompe la fitina in fosfati insolubili di calcio e magnesio e acido fitico. Il processo abbassa il pH rimuovendo gli ioni tampone e producendo questo acido debole. L’Acid Rest non è più usato ai giorni nostri perchè sono necessarie parecchie ore a finchè l’enzima abbassi il pH al range desiderato 5.0-5.5. Oggi, tramite la conoscenza della chimica delle acque e aggiunte appropriate di sali, i giusti valori di pH possono essere raggiunti senza bisogno di un Acid Rest.

Dough-In (Step-In)

Per quanto ne sappia, lo step di temperatura per la fitasi non è più usato da nessun birrificio commerciale. Però questo range di temperatura (35-45°C) è talvolta usato dagli homebrewer per il Dough-In o Step-In: mescolare le trebbie con l’acqua per lasciare il tempo agli amidi del malto di mescolarsi con l’acqua e agli enzimi di distribuirsi. Gli enzimi sono maggiormente attivi in questo range di temperature e rompono una piccola percentuale di destrine in questo stage iniziale dell’ammostamento. La maggior parte del debranching avviene durante la maltazione come parte del processo di modificazione. Solo una piccola percentuale degli enzimi di debranching sopravvive al processo di essicatura dopo la maltazione, quindi non ci si può aspettare molto da questa sosta enzimatica. Dopo tutto quello che e’ stato detto, l’uso di un rest a temperature intorno ai 40°C ha dimostrato di essere di beneficio al miglioramento della resa di tutti i malti enzimatici. Questo step è considerato opzionale ma può migliorare l’estrazione di un paio di punti.

Protein Rest e Modificazione

Malti poco modificati beneficiano di un Protein Rest per spezzare le grosse proteine
rimanenti in piccole proteine e aminoacidi, così come per rilasciare ulteriormente amidi dall’endosperma. Malti completamente modificati hanno già fatto uso di questi enzimi e non beneficiano di ulteriore tempo speso nel regime di Protein Rest.
Infatti, fare un Protein Rest con malti completamente modificati tende a rimuovere la maggior parte del corpo di una birra, lasciandola poco consistente ed acquosa. La maggior parte dei malti base in uso sono completamente modificati. Malti meno modificati sono spesso disponibili dalle malterie tedesche. Gli homebrewer hanno riferito di sapori più pieni e maltati usando malti poco modificati e fanno uso di questo rest.
Il malto d’orzo contiene molte catene di aminoacidi che formano le proteine semplici necessarie alla germinazione della pianta. Nel mosto, queste proteine sono invece utilizzate dal lievito per la loro crescita e sviluppo. Molte proteine del mosto, inclusi certi enzimi come l’amilasi, non sono solubili finchè il mosto raggiunge temperature associate al Protein Rest (45-55°C).
I due enzimi proteolitici responsabili sono la peptidasi e la proteasi.
  • La peptidasi lavora per fornire al mosto gli aminoacidi che saranno usati dal lievito.
  • La proteasi lavora per spezzare le lunghe catene di proteine per migliorare la ritenzione di schiuma della birra e ridurre la torbidità.

Nei malti completamente modificati, questi enzimi hanno già fatto il loro lavoro durante il processo di maltazione. I range di temperatura e pH per questi due enzimi si sovrappongono. Il pH ottimale è 4.2-5.3 ed entrambi gli enzimi sono attivi a temperature tra i 45 e i 55°C.

Non c’è bisogno di tentare di abbassare il pH del mosto per facilitare l’uso di questi enzimi. Il tipico Protein Rest a 50-55°C è usato per rompere le proteine che altrimenti potrebbero causare torbidità alla birra fredda (chill haze) e può migliorare la ritenzione di schiuma. Questa sosta dovrebbe essere usata solo quando si usano malti mediamente modificati, o quando si usano malti totalmente modificati con grosse proporzioni (> 25%) di grani non maltati, fiocchi di orzo, frumento, riso, avena. Usare questa sosta in un mash che consiste principalmente in malti completamente modificati romperebbe le proteine responsabili del corpo della birra e della ritenzione della schiuma, e risulterebbe in una birra inconsistente ed acquosa. La durata standard per il Protein Rest è 20-30 minuti.

Beta-Glucanase Rest

Gli altri enzimi in questo range di temperature sono i beta-glucanasi/citasi, parte della famiglia degli enzimi della cellulosa, e sono usati per rompere i beta-glucani nel frumento (non) maltato, riso, avena e orzo non maltato. Questi glucani emi-cellulosici(brambles) sono responsabili della gommosità dell’impasto e se non spezzati, provocherebbero la trasformazione del mosto in una impasto solido pronto per essere infornato. Fortunatamente, il range di temperatura ottimale per gli enzimi della beta-glucanasi sono al di sotto di quelli per gli enzimi proteolitici. Questo consente all’homebrewer di sostare il mosto a 37-45°C per 20 minuti per rompere i composti gommosi senza intaccare le proteine necessarie alla ritenzione della schiuma e al corpo. L’uso di questa sosta è necessaria solo per gli homebrewer che incorporano una grossa quantità (> 25%) di frumento non maltato o in fiocchi, riso o avena nel mosto. Con quantitativi inferiori, casi di mosti viscosi e filtraggi difficili possono di solito essere gestiti incrementando la temperatura di mashout.

Saccarification Rest (Conversione degli amidi)

Finalmente siamo arrivati all’evento principale: ottenere zucchero dalle riserve d’amido. In questo regime gli enzimi diastatici cominciano ad agire sugli amidi, rompendoli in zuccheri (da qui il termine saccarificazione).
Le amilasi sono gli enzimi che funzionano idrolizzando i legami lineari a catena tra le singole molecole di glucosio che costituiscono le catene di amidi. Una singola catena lineare di amido è chiamata amilosio. Una catena d’amido ramificata (che può essere considerata come costituita da più catene di amilosio) è chiamata amilopectina.
Ci sono due enzimi che permettono la creazione di zuccheri: l’alfa-amilasi e la beta-amilasi. Mentre la beta è già esistente, l’alfa è creata dalla modificazione proteica nello strato aleuronico durante la maltazione. L’amilasi non diventerà nemmeno solubile ed utilizzabile fino a che il mosto raggiungerà le temperature del Protein Rest, e nel caso di malti moderatamente modificati, l’alfa amilasi potrebbe avere un minimo di genesi ancora da completare. La beta-amilasi funziona idrolizzando i legami lineari a catena, ma può solo funzionare sui legami esterni della catena, non sui legame interni. Può rimuovere solo un’unita di zucchero (maltosio) alla volta(ricordiamo che un’unità di maltosio è composta da due molecole di glucosio).
L’Alfa-amilasi funziona anche lei idrolizzando i legami lineari a catena, ma può attaccarli in maniera casuale. L’Alfa-amilasi è strumentale nel rompere larghe amilopectine in piccole amilopectine e amilosio, creando più estremità per la Beta-amilasi da utilizzare.
La temperatura più usata per il mashing è 67°C. Questo è un compromesso tra le due temperature che i due enzimi preferiscono. Alfa lavora bene tra 68-72°C, mentre Beta è denaturata (le molecole si spezzano e cadono da queste temperature, lavorando al meglio tra 55-65°C).

Controllo della conversione

L’homebrewer può usare la tintura di iodio per controllare se gli amidi sono stati completamente convertiti in zuccheri. In presenza di amidi lo iodo assumerà un colore nero. Gli enzimi di ammostamento dovrebbero convertire tutti gli amidi, con il risultato di nessun cambiamento di colore quando un paio di gocce di tintura di iodio sono aggiunte ad un campione di mosto (il mosto non deve contenere particelle di trebbie).
Mosti ricchi in destrine daranno un colore rosso intenso quando si esegue il test dello iodio.
Grazie a questa conoscenza è possibile personalizzare il mosto in termini di fermentabilità. Una temperatura più bassa di mash, minore o uguale a 65°C, darà una birra con poco corpo, secca. Una temperatura di mashing più alta, maggiore o uguale a 74°C, darà una birra meno fermentabile, più dolce. Qui è dove un homebrewer può realmente intervenire per calibrare finemente un mosto per produrre un particolare stile di birra.

Modificare lo Step di conversione degli amidi

Ci sono altri due fattori oltre la temperatura che possono influenzare l’attività enzimatica dell’amilasi. Questi sono il rapporto acqua/grani e il pH. La Beta-amilasi è favorita da un mosto a pH basso, circa 5. Alfa è favorita da un pH più alto, circa 5.7. D’altronde, un mosto ottimale per la beta-amilasi non è un mosto molto fermentabile, lasciando un sacco di amido amilopectina non convertito; l’Alfa-amilasi è necessaria per rompere le larghe catene in modo che le beta-amilasi possano agire su di esse. Probabilmente, un mosto ottimale per l’Alfa-amilasi non avrebbe un’alta percentuale di maltosio ma invece una distribuzione casuale di zuccheri di varia complessità. Quindi, deve essere fatto un compromesso tra i pH ottimali dei due enzimi. Possono essere usati sali per la birrificazione per aumentare o diminuire il pH, ma questi sali possono essere usati in quantitativi limitati perchè influenzano anche il sapore.
La selezione dei malti può influenzare il pH tanto quanto l’aggiunta di sali in molte situazioni. Il pH del mosto durante l’ammostamento può essere controllato con cartine di test del pH.
Il rapporto acqua/grani è un altro fattore che influenza la resa di un ammostamento. Un mosto più fluido con più di 4 litri d’acqua per ogni chilogrammo di grani diluisce la concentrazione relativa degli enzimi, rallentando la conversione, ma alla fine porta ad avere un mosto più fermentabile perchè gli enzimi non sono inibiti dall’alta concentrazione di zuccheri. Un mosto più denso con meno di 2.5 L d’acqua per Kg di grani è migliore per spezzare le proteine causando anche una conversione di tutti gli amidi più veloce, ma gli zuccheri risultanti saranno meno fermentabili e ne risulterà una birra dolce e maltata.
Un mosto fluido è preferibile per un ammostamento multistep perchè gli enzimi non saranno denaturati così velocemente da un innalzamento della temperatura. La conversione degli amidi può essere completa in solo 30 minuti, così durante il resto del mash di 60 minuti, l’homebrewer può lavorare sulle condizioni di ammostamento per produrre il profilo desiderato di zuccheri nel mosto. A seconda del pH del mosto, del rapporto acqua/grani e temperatura, il tempo richiesto per completare l’ammostamento può variare tra 30 a oltre 90 minuti.
A temperature più alte, con un mosto più denso e un pH più alto, l’alfa amilasi sarà favorita e la conversione degli amidi si completerà in 30 minuti o meno. Tempi più lunghi lasceranno alla beta-amilasi il tempo di spezzare più zuccheri complessi in zuccheri semplici, con il risultato di un mosto più fermentabile, ma se le condizioni favoriscono le Alfa automaticamente deattiveranno le Beta.  Un buon compromesso tra tutti i fattori è quello di fornire delle condizioni standard di mash, ovvero un rapporto di 3 litri d’acqua per kg di grani, pH di 5.3, temperatura di 65-70°C e tempo di circa un’ora. Queste condizioni portano ad avere un mosto con una buon contenuto di malto e una buona fermentabilità.

Trattamento dell’acqua

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L’acqua costituisce circa il 90-95% della birra eppure molti homebrewers sottovalutano la sua importanza. In effetti si riesce a produrre birra senza curare molta attenzione su questo elemento, ma, per produrre un’ottima birra occorre curare anche questo aspetto.

L’acqua influenza la birra sotto il profilo gustativo perchè i sali minerali disciolti possono “interagire” gustativamente con gli ingredienti della birra.

In particolare (Magnesio, Cloruro, Solfato) posso interagire con le sensazioni date dall’amaro del luppolo: una birra tendente all’amaro sarà molto gradevole con acque “morbide”  (con pochi sali minerali), mentre avrà un amaro più  “aggressivo” e deciso con acque dure. Paragonate una Pils Ceca ed una Bitter Inglese! Se l’acqua è eccessivamente clorata il cloro può interagire con componenti della birra e formare clorofenoli (che apportano un “gusto di medicinale”). Il problema può essere eliminato per mezzo di una breve bollitura dell’acqua prima dell’utilizzo: il  cloro evapora via.

I sali minerali dell’acqua influenzano il livello di pH ed il nostro tentativo di portarlo nei parametri necessari, vediamo come: la molecola dell’acqua è formata, come tutti sanno, da un atomo di ossigeno e due di idrogeno (H2O) ma nell’acqua si trovano anche piccoli quantitativi di ioni H+ (idrogeno) e di ioni OH(ossidrile). Il pH fa riferimento alla quantità di ioni H+ presenti (in moli/litro): 0.000001 mol/l di H+ (10e-7) danno pH=7 (neutro); 0.0001 (10e-5) danno pH=5 (acido); 0.0000001 (10e-8) danno pH=8 (alcalino).

I sali disciolti in acqua possono variare questo rapporto, legandosi agli ioni H+ o OH-, modificando così il pH. Se leggiamo una etichetta di acqua minerale vediamo la quantità dei sali (o meglio ioni) più comuni espressi in ppm (parti per milione) ossia mg/litro: Ca++ (calcio), Mg++ (magnesio), Na+ (sodio), HCO3- (bicarbonato, indicato anche come CO3–), Cl- (cloruro), SO4– (solfato).

Attraverso legami con gli ioni già esistenti nell’acqua, Ca++ e SO4– tendono ad aumentare  la concentrazione di ioni H+ e fare abbassare il livello del pH (aumentare l’acidità), mentre HCO3- tende ad impedire che il pH scenda, legandosi con gli H+ “liberi” (effetto “tampone”).

Altra fase in cui il pH dell’acqua è importante è la filtrazione: anche se abbiamo raggiunto un livello di acidità ottimale nell’ammostamento, dobbiamo fare attenzione al fatto che mosto (tendenzialmente acido) viene portato via dall’impasto ed acqua nuova viene inserita per il risciacquo delle trebbie. Anche di questa acqua dobbiamo preoccuparci, perché, anche se la funzione degli enzimi è terminata, un pH elevato (sopra i 5.7) può estrarre dalle trebbie tannini e polifenoli che daranno astringenza eccessiva alla birra finita.

Acque nel mondo

Come detto, il tipo di acqua influisce sul gusto della birra e stili particolari vorrebbero acque particolari. Ecco un esempio delle acque tradizionalmente utilizzate per realizzare pils, dunkel, stout, dort e ales (ppm / mg/l): 

Pilsen Monaco   Dublino   Dortmund   Burton
Ca 7 75 115 250 295
Mg 2 20 4 25 45
Na 2 10 4 70 55
SO4 5 10 55 280 725
HCO3 15 200 200 550 300
Cl 5 2 19 100 25

Come avere a disposizione questi profili di acque per la produzione di birra in casa? La soluzione è semplice, basta partire da acque morbide (tipo Pilsen) e trattarle con l’aggiunta di sali facilmente reperibili in commercio come: 

Tabella A

Nome comune nome scientifico Formula molecolare Ione Ione
Gypsum Solfato di Calcio CaSO4 Ca=23% SO4=56%
Cloruro di Calcio CaCl2 Ca=27% Cl=48%
Sali Epsom Solfato di Magnesio MgSO4 Mg=10% SO4=39%
Calcite Carbonato di Calcio CaCO3 Ca=40% CO3=60%
Sale da cucina Cloruro di Sodio NaCl Na=40% Cl=60%
Bicarbonato di sodio NaHCO3 Na=27% CO3=71%

Calcoli per il trattamento dell’acqua

Supponiamo di voler riprodurre in casa il profilo di acqua di Burton avendo a disposizione dell’acqua minerale confezionata. Nella tabella seguente riporto il profilo dell’acqua acquistata ed il profilo da raggiungere.

Acqua da trattare Profilo acqua di Burton
Ca = 30 Ca = 294
Mg = 15,7 Mg = 24
Na = 1,3 Na = 24
Cl = 1,3 Cl = 36
SO4 = 8,7 SO4 = 801
HCO3= 158 HCO3 = 300

Dalla tabella si nota come l’acqua acquistata e da trattare abbia un profilo più morbido rispetto a quella di Burton.

Supponiamo di voler produrre 20 Lt di birra e di trattare l’acqua in modo che questa si avvicini al profilo dell’acqua di Burton on Trent. Eseguendo la differenza tra gli elementi che compongono i due profili delle acque avremo che occorrono circa

Ca = 260 ppm , Mg = 9 ppm, Na = 22 ppm, Cl = 35 ppm, SO4 = 790 ppm e HCO3 = 140ppm.

Se moltiplico questi valori per il quantitativo di birra da produrre avremo che occorrerà aggiungere

20 *260 = 5200 mg di Ca

20 * 9  = 180 mg di Mg

20 * 22 = 440 mg di Na

20 * 35 = 700 mg di Cl

20 * 790 = 15800 mg di SO4

20 * 140 = 2800 mg di HCO3

Supponiamo di avere a disposizione sale Gypsum e comunissimo sale da cucina, quanti di questi sali occorrerà aggiungere?

Per determinare l’esatto peso occorre sapere che la concentrazione dei singoli ioni non è uguale alla concentrazione complessiva del sale, quindi, i calcoli da eseguire devono tenere in considerazione le percentuali di composizione degli ioni riportati in tabella A.

Proseguendo con l’esempio, prendiamo in considerazione il Gypsum. Occore dividere il quantitativo di SO4 necessario (15800) per la percentuale di ioni SO4 che compongono il Gypsum (56%), ovvero 15800 / 0,56 = 28214 mg = 28 gr.

Ma attenzione, con l’aggiunta di 28 gr di gypsum verranno aggiunti anche ioni Ca. Per determinare il corrispettivo quantitativo di ioni Ca aggiunti si esegue il seguente calcolo: si divide il quantitativo di gypsum per i litri totali previsti, ovvero 28214 / 20 = 1410 ppm e successivamente, si divide il quantitativo ottenuto per la % di ioni Ca che formano il gypsum, ovvero 1410 * 0,23 = 325 ppm di Ca.

Sommando questi valori alla nostra tabella dei profili risulterà che

Acqua da trattare Profilo acqua di Burton Dopo il trattammento
Ca = 30 Ca = 294 355
Mg = 15,7 Mg = 24 15,7
Na = 1,3 Na = 24 1,3
Cl = 1,3 Cl = 36 1,3
SO4 = 8,7 SO4 = 801 798,7
HCO3= 158 HCO3 = 300 158

Ora, vogliamo anche equilibrare sodio e cloro. Per farlo è utile aggiungere del sale da cucina. Vediamo come:

Na da aggiungere diviso % ioni: 440 / 0,40 = 1100 di Na ovvero 1 gr di sale da cucina

Quanto corrispettivo Cl è stato aggiunto con 1 gr di sale da cucina? 

1100 / 20 = 55 ppm ovvero 55 * 0,60 = 33 ppm di Cl

A questo punto il nuovo profilo sarà il seguente:

Acqua da trattare Profilo acqua di Burton Dopo il trattammento
Ca = 30 Ca = 294 355
Mg = 15,7 Mg = 24 15,7
Na = 1,3 Na = 24 21,3
Cl = 1,3 Cl = 36 34,3
SO4 = 8,7 SO4 = 801 798,7
HCO3= 158 HCO3 = 300 158

L’imprevisto dietro l’angolo

Occorre fare molta attenzione all’uso dei sali perchè il loro utilizzo tende a variare il pH di ammostamento. L’utilizzo eccessivo di gypsum potrebbe abbassare di molto il pH ideale per l’ammostamento rendendo necessario l’utilizzo di un ulteriore sale (come il bicarbonato) per riequilibrare il pH. In questo modo si rischia di rendere l’acqua troppo “dura” andando incontro a dei sapori troppo “mineralizzati”.

In conclusione, può sembrare difficoltoso eseguire questi calcoli ma vi posso assicurare che dopo qualche prova tutto diverrà molto semplice sopratutto se utilizzerete sempre la stessa acqua.

Spero di esservi stato utile,

buona birra a tutti

Ceppi di lievito per Belgian Strong Ales

lievitoOgni  lievito svolge un ruolo determinante nella formazione della personalità di birre belghe. Imparare a scegliere il corretto ceppo di lievito vi permetterà di  prendere il controllo della vostra fermentazione. Per acquisire tale conoscenza sarà necessario saper inoculare il giusto quantitativo di lievito evitando fenomeni di pitching, migliorare il livello di aerazione e controllare la temperatura di fermentazione.

Quando si tratta di produrre una buona birra, molti fattori sono importanti, tra cui la corretta sanitizzazione delle attrezzature, l’utilizzo di ingredienti di qualità, le attrezzature e le tecniche. Qualunque sia però lo stile di birra che si desidera produrre, nulla sarà più importante della scelta corretta del lievito di fermentazione. A maggior ragione, se si intende produrre una strong ale in stile belga, la selezione dei lieviti e la gestione della fermentazione sono di primaria importanza in quanto i sapori derivati dal lievito lasciano la loro firma in evidenza. Per rendere le cose ancora più complesse, ci sono un gran numero di ceppi di lievito disponibili per gli homebrewer (Wyeast e White Labs offrono più di 20 ceppi belga), dove ognuno è ben diverso dall’altro. Ma, con un pò di orientamento e di un pò di sperimentazione, sarà possibile raggiungere qualità soddisfacenti e ottime complessità.

Il carattere del lievito belga

La maggior parte delle birre prodotte in Belgio sono conosciute per il loro carattere, spesso impartito dal lievito o da batteri usati nella loro fermentazione. In questo post tratteremo solo lieviti di stampo belga e solo su birre forti, quelle con una OG superiore a 1.070, come Tripel, Dubbel e un paio di birre trappiste.

Esistono due famiglie che compongono le caratteristiche olfattive di una birra: esteri e polifenoli. Gli esteri sono noti per il loro carattere fruttato, spesso ricordano pere, prugne, agrumi, rose, fragole, altre bacche e banane. I fenolici sono composti dal carattere piccante e molte volte tendono ad avere note speziate di pepe nero o chiodi di garofano. Tuttavia, esistono composti fenolici sgradevoli come “medicinali”, tipo plastica o fumoso. A seconda dello stile, gli esteri e i polifenoli completano il bouque di una birra, unendosi o contrapponendosi agli altri sapori dati da malto, luppolo e dalle eventuali spezie aggiunte. La capacità di un buon homebrewer sta nel selezionare il giusto lievito e nel saperlo “domare” per portare fuori i giusti livelli olfattivi che ogni lievito è in grado di sprigionare.

Flavors prodotti dal lievito

Quando si fermentano birre belghe, il primo pensiero va alle molteplici caratteristiche che il tipo di lievito è in grado di donare alla birra finita; questi vengono suddivisi in esteri, fenoli e alcoli. Fattori come il tasso di inoculazione, il livello di ossigenazione, la temperatura di fermentazione, la densità iniziale, il livello di nutrienti e zuccheri semplici influenzano il tipo di lievito. In generale, la densità iniziale della birra e gli zuccheri semplici sono fissati ad inizio produzione in base allo stile che si intende imitare. L’autore George Fix, nel suo libro, “An Analysis of Brewing Techniques” (1997, Brewers Publications), raccomanda un tasso di inoculo tra 750.00 – 1.000.000 di cellule per grado Plato e millilitro di mosto. In 19-Lt di mosto significa che sono necessari tra i 165 ei 400 miliardi di cellule di lievito. Ad esempio, per una birra belga con una densità originale di 1.080, sono necessarie 284 miliardi di cellule, che sono raggiungibili facendo un starter da circa  2,5 lt. Un tasso troppo basso di cellule può determinare livelli elevati di esteri, mentre, un tasso troppo elevato di cellule può portare a sentori di solvente. Inoltre, un tasso di cellule troppo basso può causare rallentamenti o fermentazioni incomplete. L’ossigeno è fondamentale per la crescita del lievito. Durante questa fase il lievito cresce rapidamente. Quando l’ossigeno è carente, nella fase iniziale dell’inoculo del lievito, la crescita rallenta e la membrana cellulare non sviluppa la corretta permeabilità. Bassi livelli di ossigeno possono portare ad una lenta fermentazione. Come si può dedurre, una corretta ossigenazione è fondamentale. Greg Doss, un microbiologo della Wyeast, raccomanda che all’inizio dell’inoculo devono essere presenti circa 8-15 ppm di ossigeno. Si raccomanda comunque 15 ppm di ossigeno quando la densità della birra è alta.

Un corretto controllo della temperatura di fermentazione è necessaria per la fermentazione. Il processo di fermentazione è esotermico, il che significa che il calore è generato dall’attività del lievito. Se la temperatura della fermentazione non è controllata, la temperatura del fermentatore salirà ben sopra la temperatura dell’ambiente anche di circa 4,4 ° C. I fornitori di lievito elencano una gamma di temperatura raccomandata per ciascuno dei loro lieviti. Ma, con poche eccezioni, il range ottimale di fermentazione consigliata è di 20-22 ° C. Quando le temperature di fermentazione sono elevati, la quantità di esteri e alcoli prodotti aumentano. Un metodo che il Dr. Chris della White Labs descrive per poter estrarre le corrette caratteristiche del lievito è quello di  aumentare gradualmente la temperatura di fermentazione in modo da poter permettere al lievito di fermentare rapidamente e di creare profili aromatici interessanti.

Stili e i loro Lieviti

Per iniziare, la frase “stile belga” è un pò un ossimoro in quanto la maggior parte dei belgi non producono birre in base ad uno stile particolare. I produttori belgi si concentrano principalmente sulla produzione di birra che piace a loro. Ma, per semplicità di discussione, useremo il termine “stili” e faremo riferimento al Beer Judge Certification Program (BJCP, www.bjcp.org) che elenca, nel dettaglio, i vari stili oggi affermati al mondo.

Per creare questi stili esistono in commercio diversi ceppi di lievito belga con diverse caratteristiche. Uno di questi stili, molto diffuso in Belgio, è la Golden Ale. Queste birre sono note per la loro forza, di solito sopra gli 8,0% ABV (alcool in volume). L’esempio commerciale prototipo è Duvel, ma ci sono molti altri esempi eccellenti come Lucifer, Delirium tremens, Brigand, Avery Salvation e North Coast PranQster. Il profilo di lievito in questo stile si concentra su un matrimonio di fenoli speziati e pepati con un carattere floreale di luppolo speziato. Il livello di esteri è moderato, ma di solito semplice, spesso ricorda limoni e arance. I ceppi di lievito esistenti in commercio per fermentare una golden ale sono Wyeast 1388 (Strong Belgian Ale) e White Labs WLP570 (Golden Belgian Ale); probabile origine del lievito da Duvel Moortgat. Questo ceppo attenua bene, ma ha il difetto di essere lento a fermentare e flocculare. A temperature alte, il lievito può produrre molti esteri con profumi di banana. Buone alternative a questo ceppo sono il Wyeast 3522 (Ardenne belghe) e White Labs WLP550 (Ale belga); probabile origine da Achouffe. Questi ceppi sviluppano un carattere fenolico principalmente piccante con un livello di esteri molto più basso, ma con un profilo che è più complesso. Questo ceppo può lavorare a temperature di circa 23-24 ° C senza che si verifichino eccessi di esteri.

Le Tripels sono simili in forza e colore alle golden ale, ma hanno un maggior equilibrio tra il fruttato e lo speziato. Eccellenti esempi commerciali includono Westmalle Tripel, Chimay White (Cinq Cents), Affligem Tripel, New Belgium Trippel, Victory Golden Monkey and Unibroue La Fin du Monde. Uno dei lievito raccomandato per questo stile è il Wyeast 3787 (trappista ad alta gravità) e White Labs WLP530 (Abbazia Ale), probabile origine Westmalle. Entrambi i lieviti producono un carattere predominante di esteri, che ricordano pere, bubblegum, prugne e agrumi. Il carattere di pepato si fonde bene con gli esteri. A temperature più elevate, questi lieviti possono contribuire un pò alla formazione di sentori di banana. A basse temperature, inferiori a 19 ° C, questo lievito può andare in letargo permanente. Wyeast 1214 (Belgian Ale) e White Labs WLP500 (Ale trappista), probabile origine Chimay, producono anche loro buone tripels. Questi lieviti producono esteri intensi e complessi, quasi indescrivibili nel carattere a causa della loro complessità. Entrambi i ceppi sono un pò lenti a partire, ma attenuano bene con il passare dei giorni. Quando la temperatura di fermentazione supera quella raccomandata  (22-25 ° C), non si verificano notevoli cambiamenti per quanto riguarda la componente esteri. Altri ceppi per la produzione di tripels sono Wyeast 3522 e White Labs WLP550, il profilo estere non è così complesso, ma ancora abbastanza accettabile.

Le Dubbel, a differenza della Tripel e le Golden Ale, sono birre scure con accentuati note di caramello e prugna oltre a sentori di esteri complessi e un leggero contrasto di fenoli speziati. Esempi eccellenti sono Chimay rossa (chiamato anche Premiere), St. Bernardus Prior 8, Westmalle Dubbel, De Koning-Hoeven Dubbel, Corsendonk Brown Ale, Allagash Dubbel e New Belgium Abbey. I migliori ceppi di lievito per produrre esteri abbastanza potenti per equilibrare i malti scuri in una Dubbel sono i ceppi di Chimay Wyeast 1214 e White Labs WLP500. Gli esteri complessi completano i sentori di malti caramello.

Un’altra famiglia sono le Dark Strong. Questa famiglia di birre comprende una miriade di esempi commerciali, tutti con il loro colore scuro e ad alta resistenza (di solito 8-10 +% ABV) in comune. Le Dark strong hanno, nel malto caramello, la loro componente principale oltre a note tostate, ma possono avere qualsiasi combinazione di esteri e fenolico. Questo stile comprende birre come quelle dei monasteri trappisti. Esempi eccellenti sono la St. Bernardus Abt 12, Westvleteren 12 (yellow cap), Chimay Blue (Grande Reserve), Rochefort 10 (blue), Delirium Nocturnum e Avery The Reverend. Se si intende replicare il maltato e gli esteri di una  Westvleteren o Achel, usare i ceppi di Westmalle Wyeast 3787 e White Labs WLP530. Entrambe le abbazie hanno ricevuto assistenza da Westmalle quando hanno cominciato birra e continuano a riceverlo ancora oggi. Per dark strong maltate con un grande profilo di esteri complesso, simile a quelli della Chimay, utilizzare Wyeast 1214 o White Labs WLP500. Per replicare una Rochefort, utilizzare Wyeast 1762 (Belgian Abbey II), che proviene dall’abbazia stessa. Questo lievito fornisce un forte carattere fenolico piccante con un profilo di esteri moderato ma complesso e una moderata quantità di alcoli superiori, tutti molto simili nel carattere a birre Rochefort. Altri lieviti che sono particolarmente adatti per la fermentazione di una dark sono i ceppi Achouffe (Wyeast 3522 e White Labs WLP550).